Premessa a «Saggi alfieriani» (1980)

W. Binni, «Premessa» a Saggi alfieriani, Roma, Editori Riuniti, 1981. I saggi raccolti nel volume sono gli stessi del volume omonimo pubblicato da La Nuova Italia nel 1969: Le lettere dell’Alfieri, Il finale della «Tirannide» e le tragedie di libertà, Il periodo romano dell’Alfieri e la «Merope», Lettura del «Saul», La prima parte delle «Rime» alfieriane, Lettura della «Mirra». In appendice, il saggio Vita interiore dell’Alfieri.

PREMESSA A «SAGGI ALFIERIANI»

Spero, ripubblicando presso gli Editori Riuniti questo volume del 1969, una maggiore diffusione, specie fra i giovani, di questa mia interpretazione alfieriana che, pur non potendo pretendere ad una integralità della mia immagine dell’Alfieri (essa è piú esposta nel piú recente profilo alfieriano in Settecento maggiore, Milano, Garzanti, 1978, come poi dirò, e tuttavia tuttora penso ad una monografia alfieriana ancor piú approfondita e articolata), implica certamente il rilievo di alcune delle punte estreme e delle pieghe piú intime e complesse della personalità dell’Alfieri, il grande intellettuale-poeta che io considero non solo obiettivamente uno dei piú alti della nostra tradizione moderna, ma soggettivamente uno dei poeti piú congeniali (certo, nettamente dopo Leopardi) alla mia stessa prospettiva umana, letteraria, etico-civile e addirittura al mio carattere di cui (dopo averlo esercitato in una ormai lunga vicenda esistenziale e culturale) prendo ancor meglio coscienza (persino riconoscendone certe componenti ereditarie e ambientali) proprio in una vecchiaia tutt’altro che inerte e rinunciataria[1]. Di tale congenialità e potente attrazione, anche per quanto riguarda la mia nozione tensiva di «poetica» e il mio esercizio attivo di essa (di cui possono essere emblematici anche sparsi lacerti delle rime del grande poeta del «purtroppo», dell’interprete poetico della tragica condizione umana, dell’«arciaristocratico» ribelle, – Stockaristokrat lo chiamò Goethe – dell’intellettuale anticonformista persino nell’opposizione alla grande rivoluzione borghese: «e muggían l’onde irate in suon feroce», «quel tetro bronzo che sul cuor mi suona», «né visto è mai dei dominanti a lato»), mi accorsi – dopo un primo approccio attraverso un finissimo corso pisano di Attilio Momigliano e una lettura piú personale della Vita (che non a caso portai con me, durante la guerra, insieme ai Canti del Leopardi, alle poesie di Hölderlin, a Rouge et noir di Stendhal[2]) – soprattutto in un periodo assai importante della mia vita, nel ’40-41, quando mi trovai a svolgere (in un forte tumulto di affetti e dolori, anche privati, di idee, di azione) lavoro di critico (soprattutto nella collaborazione a «Letteratura» e «Leonardo» con saggi e recensioni di impegno letterario-civile[3]), lavoro ideologico e pratico nell’antifascismo di sinistra, dal ’36 nei gruppi di quel «liberalsocialismo» che, per me, rivoluzionario antistalinista, era volto all’assillante problema della «libertà nel socialismo», piú socialmente radicale, e non in quello socialdemocratico del «socialismo nella libertà» (sicché, nel ’43, passai al partito socialista, in concorrenza, massimalistica e libertaria, con il partito comunista) e la forzata partecipazione ad un’attività militare e bellica con cui il fascismo portava l’Italia al disastro. E proprio allora, alla fine del ’40, nella fortunata occasione di un lungo congedo, mentre facevo la triste esperienza di dover desiderare la sconfitta del nostro paese, rilessi piú attentamente altri testi dell’Alfieri, fra cui proprio le pagine della Tirannide, in cui si afferma che non «vi è patria» «là dove non vi è libertà» (ciò che da molto tempo m’era ben chiaro, ma che provocava un nuovo fecondo ardente attrito con quel grande intellettuale-poeta) e – accolto un tempestivo invito di Delio Cantimori a scrivere la «vita interiore» di un poeta moderno per una collana in cui Luigi Volpicelli si proponeva di pubblicare scritti di giovani antifascisti[4] – scelsi l’Alfieri e mi gettai a leggere e rileggere tutta l’opera alfieriana e a scrivere (tutto in due o tre mesi) il volumetto Vita interiore dell’Alfieri, pubblicato poi nel 1942[5] e ripubblicato qui in appendice con la netta data della sua composizione. Ne risultò un libro affrettato e troppo «eloquente», ma vivo e non insignificante per la sua data, né criticamente privo di spunti che, legati alla fondamentale interpretazione etico-politica, emergevano come rinnovatori (basti pensare all’uso delle lettere e dei documenti autobiografici, alla descrizione delle consonanze romantiche europee, al rilievo della natura tragica del teatro alfieriano in netto contrasto con la sua lettura lirica allora dominante[6]) e insieme riconvergevano in un rilievo, totale e antidistinzionistico, di una personalità intellettuale-poetica cosí affascinante e conturbante per me anche ben al di là dell’impatto con l’epoca della guerra, del fascismo e della connivenza con questo della monarchia, della Chiesa cattolica, delle classi proprietarie e parassitarie, dei letterati conformisti e disimpegnati all’insegna di «letteratura come vita» (in realtà «vita come letteratura»)[7].

Per non dire, in particolare, dell’attrazione esercitata dalla feroce carica anticlericale e anticattolica della Tirannide nel capitolo Della religione (con il profondo modello del Dio ebraico-cattolico per i tiranni terreni) esplicitata dall’Alfieri con parole inequivoche nelle memorabili sentenze sull’infallibilità del papa («un popolo che crede potervi essere un uomo che rappresenti immediatamente Dio, un uomo che non possa errar mai, egli è certamente un popolo stupido») e sull’inconciliabilità della religione cattolica con la libertà («la cristiana religione, che è quella di quasi tutta l’Europa, non è per se stessa favorevole al vivere libero, ma la cattolica religione riesce inconciliabile quasi col vivere libero»), che trovavano fulminea consonanza con il mio costituzionale anticlericalismo e anticattolicismo[8].

Sicché quel libro che, fra l’altro, si chiudeva fin troppo scopertamente con i versi del sonetto autoritratto («Uom di sensi e di cor libero nato / fa di sé tosto indubitabil mostra»), circolò in bozze, con vivo interesse, fra i miei amici e compagni antifascisti, e non solo fra gli intellettuali, ma fra i popolani, anche comunisti, che in quegli anni erano pur sensibilissimi (malgrado la loro fede stalinista e la mia esplicitazione intera delle dure preclusioni alfieriane non solo antiborghesi, ma anche antiplebee) ad ogni parola profonda di libertà e di antitirannia (ciò che era pure avvenuto, nel periodo del sorgere del fascismo, per il libro alfieriano di Gobetti e per quello di Calosso, fra gli operai comunisti torinesi), cosí diversi da molti intellettuali di sinistra che avrebbero poi individuato il veleno «antiprogressista» dell’Alfieri (secondo un progresso linearmente delineato, attraverso schemi plekanoviani, degli intellettuali sette-ottocenteschi tanto piú bravi e positivi quanto piú organici alla classe borghese in ascesa) accomunandosi, nella svalutazione dell’Alfieri, agli snob che non hanno mai amato Alfieri, che ne hanno sempre deriso «gli astratti furori», che lo hanno trovato noioso e rigido e non «poeta», favorendone il distacco della rappresentazione teatrale e l’avvilimento, a volte, in questa, persino dell’alto linguaggio tragico in trasposizioni prosastiche, non comprendendone la carica dirompente proprio nella voluta compressione classicistica.

Cosí, collocato nella zona in cui fu scritto e diffuso, ho ritenuto, nel ’69, di ripubblicare quel vecchio libro (cosí lontano dal mio fare critico piú maturo), e cosí, ben chiaramente datandolo (1940), ritengo tuttora di ripubblicarlo nell’appendice del presente volume. Piú tardi, partendo da quel libro, arricchii la mia giovanile, impulsiva immagine alfieriana con un saggio sulle lettere, inizialmente pubblicato nella «Rassegna d’Italia» diretta da F. Flora, nel 1946, e poi ampliato nell’introduzione ad una edizione di Giornali e lettere scelte, affidatami da Pavese e pubblicata da Einaudi nel 1949, e infine riveduto per il suo inserimento nel volume Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento (Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693): un saggio in cui «umanizzavo» – senza falsarlo o intenerirne l’aristocratica, elitaria, eroica scelta di affetti e valori – il volto alfieriano, liberandolo dalle mani di gesso con cui una lunga tradizione ne aveva coperto le sensibilissime pieghe, irrigidendole in una maschera volontaristica e pedantescamente pedagogica («volli, sempre volli, fortissimamente volli») ad uso di un «volere è potere», destinato alla piccola borghesia positivistica-arrivista, cui il vero Alfieri oppone la sua singolare commutazione di estrazione sociale in condizione di aristocratica ipersensibilità etico-poetica: si pensi all’accordo «mansueto-ardente» usato proprio per il destriero Fido (cosí come giovanilmente proprio ad un cavallo, in maniera cosí pessimistico-eroica, egli si rivolgeva: «e s’io credeva / allo stolto parer del vulgo ignaro / che vuole sia di tutti l’uomo il primo / Uomo, ad onta di tanti, io ti chiamava»). Mentre poi, al culmine del mio lungo lavoro sul preromanticismo, fra ’42 e ’47 (quando il Preromanticismo italiano fu pubblicato mentre ero deputato all’Assemblea costituente) l’Alfieri assumeva (ben al di là della saggia sintesi illuministico-neoclassica del Parini, che ristudiavo e che avevo già inizialmente studiato in un commento alle Odi, del 1938) la posizione di punta esplosiva (la «rivoluzione» preromantica) a conclusione della difficile tensione preromantica italiana con le sue remore e i suoi contenutistici impeti ribelli e nel pieno della fertile crisi dell’illuminismo. Pagine che aprono un nuovo periodo della mia interpretazione alfieriana: il periodo fra ’52 e ’54 quando all’università di Genova tenni due corsi alfieriani[9] (seguivano ad un corso dedicato al Goldoni, amato nella sua poesia tutta mondana ed umana, antimetafisica e «progressista» ottimistica nella fase piú accesa e vivida della borghesia illuministica, ma tanto, per me, inferiore all’aria di «alta montagna» del tragico e pessimistico Alfieri) da cui emergeva la grandezza della lirica e della tragedia alfieriana e da cui ripresi lo spunto per la maggior parte dei saggi ripresentati in questo volume: il saggio sul Saul[10] e sulla Mirra[11], prove supreme della sua visione pessimistico-eroica della tragedia umana e della sua espressione tragico-teatrale, sviluppatasi dopo il braccio di ferro con la Merope del Maffei e con quella di Voltaire, essenziale ad assicurarlo della bontà del suo sistema tragico (studiato nel saggio su Il periodo romano dell’Alfieri e la «Merope»[12]) e dopo il piú diretto rapporto politica-poesia precisato fra le soluzioni prospettate per l’azione dell’«uomo libero» (nel saggio Il finale della «Tirannide» e le tragedie «di libertà»[13]) e soprattutto sorretto, in una piú complessa direzione tragica, dalla esperienza fertilissima della prima parte delle Rime[14] che, mentre giustifica la piega cavalleresco-altruistica di Agide e Sofonisba, arricchisce di tensioni delicate ed ardenti l’estrema riprova della tragedia umana, in un mondo dominato da scellerate forze superiori, nel capolavoro inaudito della Mirra.

Sicché il centro di questo libro, introdotto dal ritratto alfieriano attraverso le lettere, è costituito soprattutto dall’interpretazione della zona culminante dell’attività alfieriana, dell’espressione massima di quel grande intellettuale-poeta realizzata fra Saul, Rime e Mirra.

Non fu poi – per tutto ciò che ho narrato – casuale che (mentre già riversavo, dal ’53 in poi, in forma di recensioni a edizioni o studi critici alfieriani nella mia «Rassegna della letteratura italiana»[15], spunti e nuclei di interpretazioni di singole tragedie o opere alfieriane lasciati allo sviluppo altrui, e rafforzavo l’incomparabile altezza alfieriana nel Settecento in una relazione al Congresso di italianistica di Magonza del ’62[16]) Alfieri (dopo Leopardi, e piú di Foscolo) avesse tanto posto nel mio volume metodologico del ’63 (Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963-19798) e proprio il suo esempio e i suoi testi sostenessero in gran parte alcuni punti della mia metodologia: la rivendicazione della essenziale dimensione teatrale della letteratura tragica, la prospettiva di un diverso uso storico-poetico del variantismo rispetto a quello tecnico-stilistico fine a se stesso (mi avvalsi appunto del finale del Filippo nella idea, stesura e successive verseggiature), l’assurdità di una diretta, meccanica corrispondenza fra arco ideologico e arco poetico, appunto nel rilievo della fertilità dell’ultimo Alfieri, quello che poi tanto significò – con le sue Satire e con il loro linguaggio prosastico-innovatore – per il Leopardi fra Palinodia e Ginestra, come io avevo notato già nel ’62, in una relazione recanatese su Leopardi e la poesia dell’ultimo Settecento (pubblicato poi nel volume La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973, 19794) in cui davo massimo rilievo all’importanza e congenialità di Alfieri nello sviluppo del grandissimo Leopardi. Infine, al di là della zona in cui nacquero e si consolidarono i saggi del presente volume, sono ritornato sull’Alfieri in occasione del mio Settecento letterario per il volume VI, Il Settecento, della Storia della letteratura italiana dell’editore Garzanti (Milano, 1968) stendendone un completo profilo storico-critico[17] che recentemente ho ripreso e risviluppato, con forte ampliamento e rafforzamento, nel lungo capitolo alfieriano del volume Settecento maggiore: poetica e poesia di Goldoni, Parini, Alfieri (Milano, Garzanti, 1978).

A quest’ultimo saggio rimando chi voglia conoscere la mia piú recente e intera interpretazione alfieriana: saggio che, comunque, si avvaleva fortemente delle idee svolte nel presente volume e delle sue analisi, tanto piú particolareggiate, di periodi e opere supreme dell’Alfieri.

Perciò ripubblico volentieri questo volume con la presente premessa, che inserisce il mio lungo esercizio alfieriano in alcune delle mie personali vicende di studioso e di intellettuale attivo anche in direzione etico-politica, di «letterato-antiletterato» nel senso della lezione di quel grande intellettuale-poeta, «disorganico» per eccellenza, anticonformista per natura e volontà, cosí diverso ed opposto ai letterati cortigiani di tutte le corti e di tutti i regimi, auctoritas di coraggio intellettuale e morale, di altezza poetica e teatrale vertiginosa, «fratello maggiore» di Foscolo e soprattutto di Leopardi, a cui potentemente prelude e alla cui luce, tanto piú profonda e irraggiante, meglio ci rivela la carica dirompente delle sue intuizioni intellettuali-poetiche.


1 Per chi abbia desiderio di conoscere la personalità di chi ha scritto libri come questo o come i saggi su Leopardi, su Michelangelo, su Foscolo, su Carducci, sul Casa, su Montale, sul tutt’altro che placido Ariosto, e persino sul Metastasio, sul Parini, sul Goldoni o sui poeti decadenti, arcadici e preromantici, rinvio almeno alle premesse del mio libro su Michelangelo scrittore (Torino, Einaudi, 1975) e di La protesta di Leopardi (Firenze, Sansoni, 1973), ai miei scritti Professione Reporter e Perugia: la tramontana a Porta Sole, in Due saggi: Ariosto e Foscolo (Roma, Bulzoni, 1978), al mio autoritratto in Ritratti su misura, Venezia, 1960, al mio scritto sul mio zio materno Augusto Agabiti in «Studi oliveriani» di Pesaro, 1980, al mio discorso per la morte dello studente Paolo Rossi all’Università di Roma, riportato in Paese Sera, 1° maggio 1966, in Mondo operaio, 1966, e in Dovere di resistenza, Milano, Edizioni 10/16, 1977 (per non dire di altri scritti che mi riprometto di raccogliere in un volume).

2 Attratto non dallo Hölderlin in chiave heideggeriana e, alla fine, ridotto anche a testo nazista, ma da quello dello scacco rivoluzionario individuato poi da Bertaux e Römer; non dallo Stendhal degli snob, ma da quello che, proprio in Rouge et noir, esaltava in Julien Sorel il contadino «arrampicatore» per necessità, ma nell’intimo ateo e spasimante per la virtú giacobina; dal Leopardi non idillico, ma protestatario secondo la mia nota interpretazione. E poiché ho nominato Stendhal mi piace ricordare ai nostri snob provinciali il suo acceso culto alfieriano, còlto, fra le tante, in una frase sintomatica: «Contre l’alliance de tous les charlatans ... je me rinçai la bouche en lisant un peu de la prose d’Alfieri» (Journal, 9 décembre 1804, in Oeuvres intimes, Paris, Pléiade, 1969, p. 529). Né si dimentichi l’accoppiamento Shakespeare/Alfieri in un altro luogo sintomatico (Journal, 4 octobre 1806, in Oeuvres intimes, cit., p. 825): «J’ai un grand principe de malheur, des désirs contradictoires. Je hais la bashfulness, et cependant pour satisfaire ma passion principale il me faut des ennuyés. Ce qui manque à Shakespeare et Alfieri, c’est de n’avoir pas eu à amuser des ennuyés rendus difficiles». Né si dimentichi l’ira stendhaliana per alcune bestialità di uno sciocco «pédant», come soprattutto quella secondo la quale «Alfieri n’est pas poète» – Journal, 21 maggio 1813, in Oeuvres intimes, cit., p. 1225 – (l’ho sentito ridire anche recentemente da un «indiscusso» maestro di critica letteraria!). E si ricordino ancora nel Journal (Oeuvres intimes, p. 484): «J’achête le matin le Opere varie del divino Alfieri, comme contrepoison au méphitisme de bassesse qui m’entoure» (19 juillet 1804), e (Journal, Oeuvres intimes, cit., p. 503, 28 août 1804), e – parlando dei suoi progetti teatrali – «La partie oú je sens que je pourrai faire mieux est la sceneggiatura oú je suis élève du grand Alfieri».

3 A «Letteratura», ripeto, e alle riviste «Leonardo» e «Nuova Italia» collaboravo dal ’3537. Basti ricordare il saggio del ’38 in «Letteratura» su Prezzolini, che attaccava, in chiave antifascista, quell’ambiguo intellettuale reazionario (si veda, in proposito, piú che la pagina di Prezzolini nel suo Diario – ’38 – il libello di G.C. Vigorelli Un omaggio a Prezzolini, Roma, 1954, che denunciava il mio «livore antifascista», o, su «Leonardo» nel ’38, la violenta stroncatura del primo volume della Storia della letteratura italiana di Giovanni Papini. Nel ’40 mi trovavo già alle spalle La poetica del decadentismo (Firenze, 1936, 19799) con la prima formulazione della nozione di «poetica», che nel libro alfieriano trovava applicazione soprattutto nel nesso vita-poesia – poi evidenziato nel saggio Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-13 (1954, poi in Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, 1960-19804) su cui vedi C. Varese, Vita e poesia, in «Criterio», 1955, e metodologizzato in Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963, 19799 – e nel raccordo con la poetica romantica (a cui facevo risalire lo stesso stringente e dirompente modulo della struttura e del linguaggio tragico alfieriano). E ancora un commento al Furioso (pubblicato nel ’42, ma scritto già nel ’39) in cui avviavo un capovolgimento dell’«armonia» crociana in un materialistico «ritmo vitale» piú tardi consolidato in Metodo e poesia di L. Ariosto, Firenze, D’Anna, 1947, oltreché (fin dal ’34 con una tesina universitaria e nel ’35 con un breve saggio Linea e momenti della lirica leopardiana in Celebrazioni marchigiane, Macerata) il nucleo della mia interpretazione dell’ultimo Leopardi che nel ’47 (con la Nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 19804) avrebbe collaborato fortemente alla svolta dell’«immagine eroica», protestataria, antidillica, del nostro massimo poeta moderno.

4 In quella collana uscirono contemporaneamente due volumetti di C. Varese (Vita interiore di Ugo Foscolo) e di A. Capitini (Vita religiosa).

5 Nel 1941 ne anticipai – sviluppandole – alcune pagine in un articolo V. Alfieri e il romanticismo nella rivista «Maestrale». A proposito delle tragedie, alcuni spunti, nati dal primo ricordato incontro con l’Alfieri nella lettura di Momigliano, eran presenti in una recensione del ’38 su «Letteratura» al libro V. Alfieri di Mario Fubini, che rivelava la mia giovanile impazienza soprattutto di fronte alle interpretazioni troppo caute e distinzionistiche delle tragedie in quel libro viceversa cosí importante per l’analisi del pensiero alfieriano.

6 Si pensi al saggio del Croce (pur cosí stimolante e serio nella prospettiva europea in cui inserisce l’Alfieri, per lui unico «poeta» del Settecento), alla Lettura lirica del teatro alfieriano del Russo, in «Rivista italiana del dramma», 1940, al volume di Raffaello Ramat, Alfieri tragico-lirico, Firenze, 1940, cosi variamente importanti in zona postcrociana. Mentre la progressiva disaffezione teatrale (salvo meritorie eccezioni), favoriva questa tendenza alla lettura «lirica» del teatro alfieriano. Per una ben diversa e profonda comprensione del teatro alfieriano nell’Europa dell’Ottocento, e proprio a Parigi, si ricordino i giudizi entusiastici di tanti giornalisti teatrali e letterari sulle famose recite della Mirra da parte della Ristori nel ’55 e in particolare il poco noto tercet indirizzato da Vigny alla Ristori e per il personaggio che essa interpretava: «Myrra nous a tous pris dans sa large ceinture / sanglante et dénouée. Elle apparut ici / comme la Passion brûlant dans la Sculpture. / Le livre de la Bible eût dit de vous ainsi / La France c’est lévée, elle vous a louée / comme la femme forte, heureuse et devouée, / fille du beau pais oú résonne le si!» (Vigny, Oeuvres complètes, Paris, Pléiade, 1964, I, p. 208). Già Stendhal nel citato Journal (Oeuvres intimes cit., p. 1141) parlando di una recita dell’Oreste a Parigi nel 1811 diceva: «les spectateurs buvaient Alfieri».

7 Perciò Luigi Russo, da tempo impegnato nella figura del letterato «antiletterato», ripubblicò nel 1943 il trattato alfieriano Del principe e delle lettere contro il «principe» plebeo e contro i «letterati» conformisti e cortigiani di quegli anni.

8 Fin da ragazzo avevo alimentato il mio anticlericalismo radicale sia con ricordi e stimoli familiari (il nonno materno garibaldino a Mentana, uno zio materno teosofo, ma comunque anticlericale fierissimo, per non dire di piú lontane ascendenze congeniali), sia con letture delle cronache e storie della mia città natale che aveva svolto una lunga tradizione laica, fra il suo irrequieto guelfismo indipendentistico rispetto a Roma, la guerra «del sale» del 1540, contro Paolo III, e la sfortunata resistenza del 20 giugno 1859 agli svizzeri del papa (io commemorai piú tardi quella vicenda con un discorso pubblicato a cura del comune di Perugia nel 1955). E il mio anticattolicesimo si era nutrito di precocissime letture di testi eretici e materialisti (e ben presto di Leopardi). Poi, sui diciotto anni, avevo incontrato Aldo Capitini, cui tanto deve la mia formazione intellettuale, morale e politica (si vedano i miei scritti su di lui: in Due saggi: Ariosto e Foscolo cit. e Per Aldo Capitini, sul «Ponte», novembre 1968).

9 Pubblicati in dispense dall’editore Bozzi di Genova (1952-53, 1953-54).

10 Pubblicato in Studi di varia umanità in onore di F. Flora, Milano, Mondadori, 1963.

11 Pubblicato in «Rassegna della letteratura italiana», 1957 (poi in Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, 1960, 19804). Quel saggio serví anche da introduzione ad una edizione della Mirra, commentata da R. Scrivano, Firenze, La Nuova Italia, 1960 e ss.

12 Pubblicato in Studi in onore di C. Pellegrini, II, Torino, SEI, 1963.

13 Il finale della Tirannide e le tragedie di libertà, pubblicato in «Rassegna della letteratura italiana», 1963.

14 La prima parte delle Rime, pubblicato in «Rassegna della letteratura italiana», 1963.

15 Alcune delle schede e recensioni e note della «Rassegna» sono state poi ripubblicate nella parte terza (Note e schede settecentesche) del mio volume Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963, 19764. Le ricordo qui: Le redazioni della «Vita» alfieriana; Il giudizio del Bettinelli sull’Alfieri; Interpretazioni alfieriane (Oreste, Ottavia, Saul, La giovinezza letteraria dell’Alfieri, Il «poeta» Alfieri, La «Tirannide»). Piú tardi apparvero altre schede sulla Congiura de’ Pazzi, l’Agamennone, la Merope e tante altre opere alfieriane in rapporto a relative edizioni e studi.

16 Poetica e poesia del Settecento letterario, ripubblicata in «Rassegna della letteratura italiana», 1962, e poi in Arcadia e Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1963, 19683.

17 Ne trassi un sintetico capitolo nella Storia e antologia della letteratura italiana, a cura mia e di R. Scrivano, Milano, Principato, 1969 e ss.